Arrampicare in Valsesia Banner
Archive

The original "Davidone"...

Davide Zanino, meglio conosciuto come il Davidone, classe 1963, origini valsesiane Doc (Varallo Sesia). Molti lavori svolti, ora dirigente presso l'amministrazione provinciale di Biella (Sistemi Informativi e Organizzazione), una vita fra montagne e pietre più o meno alte.

Domanda - Ciao Davide, raccontami un pò la tua storia, quando hai iniziato a scalare, come ti sei avvicinato all'arrampicata...

Risposta - Il mio è stato un avvicinamento da un lato naturale, visto il luogo dove sono nato e cresciuto, e dall'altro graduale.
Avevo undici anni e facevo la prima media quando mi iscrissi al GRIM (Gruppo Ragazzi in Montagna) del CAI Varallo.

Il GRIM nacque da un'idea un po' pazza - soprattutto pensando alle paranoie di noi genitori del terzo millennio - di un padre dottrinario, don Giovanni Gallino, insegnante alle scuole Medie di Varallo, a cui devo davvero tanto per ciò che è stato capace di  insegnarmi e per come mi ha fatto conoscere e capire la montagna.

Con lui e con un piccolo gruppo di amici cominciai a fare le prime vere escursioni. A 13 anni andai alla capanna Regina Margherita, sulla punta Gnifetti del M. Rosa, ancora me lo ricordo bene, con i miei bravi pantaloni alla zuava di velluto, camicia a scacchi di lana e un bel paio di scarponi in cuoio.

Vicino ai 18 anni, dopo chilometri macinati sui monti della Valsesia e qualche escursione impegnativa, mi incuriosì il corso di introduzione all'alpinismo organizzato dal CAI Varallo. Forse, pensai, imparando a fare qualche nodo e qualche manovra, mi trarrò meglio d'impaccio nelle escursioni più ostiche.

Firma dei genitori sul modulo d'iscrizione e mi ritrovai in pietra Groana, dopo qualche nodo e manovra, sulla Costa Lunga. III o forse III+ di perfido porfido (terzo "secco" su siun - l'erba scivolosa tipica dei pendi montani - come sentenziai più avanti), con uscita finale in un diedrino di IV.

Caspita, la cosa mi piacque da subito sopra ogni mia previsione! Altro che noizioni da imparare per utilità, era scoppiata una vera passione. Volgeva la fine 1981 e da lì cominciò la mia storia arrampicatoria.

Dopo le prime incertezze, si formò un bel gruppo di amici, e si cominciarono a scoprire le scarpette (era l'epoca delle prime Galibier risuolate con l'Airlite e delle EP supergratton?).

L'approccio era alpinistico, si andava in "palestra" (prediletta all'epoca la torre di Boccioleto) per allenarsi per la montagna, ma già prediligevo l'arrampicata in roccia a scapito di neve e misto. Tra piccoli e grandi rischi e spaventi, doppie alla "Comici" (e relative grandi bruciature sul collo), incertezze tra la sperimentazione delle  prime scarpette d'arrampicata e dei nuovissimi scarponi Koflach in plastica (mi ricordo che li trovai stupendi sulla roccia!!), arrivammo ad una mitica serata alla Pro Loco di Borgosesia dove un francese, un tale Patrick Berhault, presentò un suo filmato, ambientato su una via al Baou de saint Jeannet. A circa metà parete superava un tetto, un 7a attuale, mi pare, scarpette ai piedi e  fascia nei capelli.

Quasi all'improvviso ci apparve un mondo nuovo. Con il poster del nuovo modello da seguire appeso in camera, iniziammo così ad esplorare il Finalese, i Nuovi Mattini, il Caporal, il Sergent, il Verdon - mi ricordo ancora uno dei primi numeri di ALP con quel servizio sulle Gorges in cui tanto mi riconobbi. E poi Sport Roccia 85, Arco, la Francia del Sud, la Spagna, fino, ai nostri giorni, sempre col massimo impegno nel  consumare la gomma dei copertoni, delle suole  e la pelle delle dita.

D - Hai partecipato alla chiodatura di alcune falesie della valle, parlaci un po' di quel periodo e se hai degli aneddoti particolari da raccontarci.

R - Sono sempre stato un gran "consumatore" di vie e il tempo che è stato da me dedicato a chiodare è molto poco rispetto al tempo di arrampicata. Ho partecipato marginalmente alla prima chiodatura - manuale - di Ara (ma a dire il vero, per non smentirmi,  più che altro ho partecipato alle prime ripetizioni!),  e ho interamente attrezzato una falesia sul Fenera, ormai abbandonata, sotto al rifugio degli speleologi, che avevo chiamato Aldebaran. Al di là delle tribolazioni di noi chiodatori privi di trapano, ricordo alcuni aneddoti legati alla denominazione delle vie di Ara. Apartheid si chiama così perché un giorno arrivammo in falesia e vedemmo un ragazzo di colore del torinese, che mi pare  si chiamasse Hassan, che stava attrezzando quella via. Siccome la cosa ci era stata un po' sulle scatole? la Nostra Falesia, la Nostra Roccia? chiamammo la via in quel modo un po' sprezzante verso l'autore. L'Ano della tigre, chiodata da Aldo Granelli con un braccio ingessato (e ancora senza trapano!), invece, fu chiamata così  perché quell'anno ad Aldo ne capitarono di tutti i colori. Altre vie, dove viene nominato Ghemme, ricordano invece le vivaci discussioni che all'epoca divampavano con un abitante della ridente cittadina, spesso alla base della falesia e quasi mai d'accordo con noi.

D - C'è sempre stato un mito che sento da quando ho iniziato a scalare: si narra che ti sia sempre impegnato al massimo e con dedizione agli allenamenti. E' vero? Lo fai ancora? Cosa fai?

R - Fra la fine del 1986 e l'inzio del 1987, mi imbattei in due testi "sacri" e che si rivelarono per me fondamentali: Arrampicare, il libro co-firmato dall'altro Patrick, Edlinger e un articolo benemerito apparso su Vertical (la mia bibbia verticale dell'epoca), che, oltre ai concetti, conteneva alcuni suggerimenti pratici per costruirsi un trave e per alcune sedute di allenamento, con tempi di recupero e quant'altro. Detto fatto, con assi, tasselloni di legno e fresa un bel trave vide la nascita, ed insieme ad un locale all'uopo affittato cominciarono i duri allenamenti. Esercizi fatti senza molto criterio e senza alcuna pianificazione temporale della forma ideale, ma con un solo obiettivo: cercare di tenersi su prese sempre più piccole,  con il massimo dei  chili appesi all'imbrago e massima gioia per le scricchiolanti articolazioni delle dita.

Fatto sta che ben fatto o mal fatto, come si dice, colpendo nel grosso, le prese della roccia cominciarono ad apparire un po' più grandi e i gradi più facili. Certo che pensando ora al carico di lavoro a cui mi sottoponevo, i risultati erano ben scarsi.
Per fortuna erano altri anni, qui da noi e quando i dodicenni da ottocipiù non erano ancora nemmeno nelle menti dei loro genitori, nei quali facendo il 6c/7a, specie se ti lanciavi su vie di più tiri e mettendoci un po' di pelo..quante "ballate" in Piantonetto? passavi per un fortissimo!

Da allora non ho mai abbandonato l'allenamento. Probabilmente nell'epoca pre pannelli, data anche la scarsità di climber locali,  ero davvero il più "convinto" della valle! Mi sparavo anche quattro o cinque sedute di due ore, dopo il lavoro, alla settimana, fra sospensioni, trazioni, piramidali e quant'altro. Avrei potuto partecipare al campionato Mondiale delle trazioni, piuttosto che alle gare di arrampicata! Con la forza ho sempre supplito alle carenze tecniche e, soprattutto, alla poca flessibilità.

Cerco di allenarmi  tuttora, devo dire perseverando, con pervicacia e masochismo,  nel lavoro a secco sul trave.

A dire il vero ho montato, nel garage di casa, dei pannelli, ma non ho mai comperato prese a sufficienza per usarli davvero.
Ora mi manca un po' di tempo da dedicare al training, o meglio, ho altro da fare,  e dalla media di due ore/giorno sono passato a dieci/venti minuti infilati negli orari più strani. Però su un taccuino sto segnando, in attesa della pensione, le ore  di "pompaggio" che sicuramente recupererò!

D - Hai delle realizzazioni di vie dure che ricordi con piacere, in Valsesia e in altri luoghi?

R - Ho sempre consumato molte vie e molte falesie per cercare di arrampicare a vista. Non ho mai provato in modo sistematico le vie dure per riuscire a fare, a tutti i costi, una salita rotpunkt. Per lo stesso motivo non mi piace salire con i rinvi già piazzati e tantomeno mi piacciono gli appigli segnati, che ormai si trovano anche sui 6a!

Detto questo, posso citare, in Valsesia, Krudelia, la via che più mi piace della falesia locale che prediligo, Ara. Concedo inoltre la menzione d'onore al primo 7a a vista, che mi riuscì,  a Buoux, la famosa TCF, e poi a due vie "d'ampleur" a Ceuse quando mi riuscirono, nell'89/90, le salite a vista di Tenerè e poi di Mirage, il primo 7c+ e la seconda 8a poi degradata a 7c+ del settore storico della Cascade. Furono davvero due bei "viaggi" nello stile dell'arrampicata di continuità che, insieme alle "cannelure", prediligo.

Mi rimangono delle belle sensazioni anche di alcune vie lunghe, quelle che ora chiamano multipitch, che mi hanno dato grande soddisfazione, fra cui Ballade d'Enfer alla Tete d'Aval e Encore du Devers alla Tete Colombe, tutte e due nel Brianconnais. Ma ce ne sarebbero molte altre, di vie, da ricordare, direi quasi tutte? a pensarci bene anche il più banale passaggio di boulder di un freddo pomeriggio d'inverno?

D - Il mondo alpinistico: quanto ti ha coinvolto, quanto ti ha interessato.

R - All'inizio molto. Sono partito dall'escursionismo, e l'alpinismo è stato il mio primo il mio sbocco naturale. Mi immaginavo lanciato con coraggio e ardimento, complici le letture adolescenziali dei classici della letteratura alpina, lungo i diedri infiniti del Civetta, o in giro per i "nobili scogli" dei grandi massici alpini. Molto presto, però, la gioiosità, il gioco, il gesto quasi esclusivamente sportivo propri dell'arrampicata, la possibilità di abbinarla facilmente a scanzonati - e risparmiosi - viaggi in lungo e in largo per l'Italia e l'Europa, il gruppetto coeso e attivo di amici che si formò, mi distolsero dalla dura lotta con l'alpe.

Il concetto di fondo, molto semplice e banale  a ben vedere, è che, non dovendo temere troppo per la propria pelle e, soprattutto, non dovendolo fare per pericoli oggettivi non del tutto domininabili, si apprezzano molto di più il gesto sportivo e le sensazioni durante l'azione, non rimandando il piacere al dopo, quando, scampato il pericolo, si ricorda o  si racconta la propria avventura.

D - Persone e personaggi del mondo alpinistico e arrampicatorio, in valle, che desideri ricordare o menzionare.

R - A don Giovanni Gallino devo sicuramente il mio avvicinamento alla montagna e poi all'arrampicata. Ricordo con piacere tutti gli istruttori del corso di alpinismo a cui partecipai, che io allora vedevo davvero come dei "miti", penso poi a Martino Moretti, alpinista e arrampicatore poliedrico e tenace nella sua attività e a tutti i ragazzi che condivisero con me i ruggenti anni 80, fra cui non posso non menzionare Milko Longo, morto l'anno scorso per un terribile incidente sul lavoro, che assieme ad Aldo Granelli, fu l'"inventore" della falesia di Ara.

D - Come vedi lo sviluppo dell'arrampicata in Valsesia: ci sono, secondo te, giovani valsesiani promettenti o che comunque si stanno impegnando per l'alpinismo e l'arrampicata?

R - Ora sono un po' fuori dall'ambiente di punta, dall'avanguardia. Vedo però che in falesia e sui massi c'è tanta gente giovane e motivata, che si da da fare, scrive guide, pulisce sentieri e chioda falesie, arrampica, si allena, porta più in alto l'asticella. Insomma vedo che il movimento c'è, è sano, cresce e si organizza anche con le nuove tecnologie, come questo sito internet. E tutto ciò è molto positivo!

D - I tuoi luoghi preferiti della Valsesia in ambito alpinistico, arrampicata, falesie, trekking...

R - La Valsesia è una meta fantastica per l'escursionismo. Ogni luogo della valle è davvero bello e interessante. Al riguardo delle falesie e dell'arrampicata, al momento non ho dubbi: per la parte bassa della valle, ma non solo,  prediligo Ara, rimpiangendo il bel paretone sopra il rifugio degli speleologi sul Monte Fenera che prometteva bene ma che è stato interdetto all'arrampicata, e per l'alta valle  il masso di Sant'Antonio, ad Alagna.

Per l'alpinismo su roccia, al di là dell'ambiente interessante, ho qualche brutto ricordo del Tagliaferro - parete nord - e del Corno Bianco, per la qualità della roccia scadente e i grandi rischi oggettivi. In Valle è' sicuramente più interessante l'alpinismo di alta quota, dove, invece, la scelta è più abbondante.

D - Cosa pensi del mondo delle gare di arrampicata sportiva? Ti ha mai interessato? Hai mai provato a fare gare?

R - Devo dire che all'epoca di Sport Roccia 85 stavo più dalla parte del manifesto dei trenta contrari alle competizioni che di coloro i quali avevano promosso l'iniziativa. Resta il fatto che le gare sono state una naturale evoluzione della mentalità sportiva e agonistica che  l'arrampicata moderna ha fatto esplodere in modo palese rispetto alla pratica alpinistica.

Le gare sono state, in ogni caso,  anche per me uno stimolo non resistibile, un modo per misurarmi con gli altri e con me stesso. Ho così partecipato ad alcune competizioni del campionato italiano negli anni 1989/90, con risultati abbastanza scarsi e sentendomi addosso molto pressione e tensione.

L'esperienza è stata positiva perché ho potuto conoscere molti atleti bravi e preparati, ma ho capito presto che non faceva per me.

Mi sentivo molto meglio a giocare sulla pietra senza vincoli di prestazione imposti dall'esterno piuttosto che ha pianificare gli allenamenti e la preparazione in funzione delle gare. In fondo avevo già un lavoro dal lunedì al venerdì. Partecipando alle gare, Insomma, mi accorsi che veniva un po' meno quella spinta verso il gioco a cui ho già fatto cenno e che mi aveva fatto innamorare dell'arrampicata. Così smisi presto.

D - Abitavi a Crevola, se non ricordo male. Sei stato tra i primi a girare sui massi di Parone. Cosa ricordi di quel periodo in cui il bouldering si chiamava ancora "sassismo"? Aneddoti, curiosità in merito...

R - In effetti, la seconda volta che toccai la roccia con velleità "scalatorie" (la prima fu in occasione della giornata di apertura del corso di alpinismo a cui partecipai), fu sui sassi di Parone, peraltro paese natio di mio Papà. Addirittura alcuna sassi sono su terreni di miei parenti. Da lì in avanti la pietra di quei sassi è stata quella da me più accarezzata. Purtroppo fatico parecchio sui blocchi: ho sempre avuto più forza resistenza che forza esplosiva e, in aggiunta sono sempre stato piuttosto "rigidino". Vedevo e vedo tuttora il bouldering come un'allenamento per la falesia; con la corda mi diverto molto di più. Ho frequentato i sassi in tutte le situazioni, sole, acqua, gelo e neve. Nei miei allenamenti ho cercato di scalarli anche con pesi attaccati all'imbrago, con pessimi risultati per le performance, la mie dita e...le parti basse, considerato che avevo attaccato con delle fettucce dei pesetti, davanti e dietro all'imbragatura, e la prima volta che saltai giù...Infatti non ho più sperimentato la cosa!

D - Progetti futuri...

R - Continuare ad arrampicare! Per l'epifania sono stato qualche giorno a Peillon con mia moglie e i bambini. Una mattina,  vicino a noi, e venuta arrampicare una coppia, lui avrà avuto più di sessantanni, forse quasi settanta, e si beveva senza troppe esitazioni dei bei 6b+. Mi piacerebbe giungere  a fare altrettanto, in coppia con Rosaria! E poi, naturalmente, prima di arrivare a ottanta anni, aspetto sempre che maturi il mio primo 8a On Sight!

Grazie Davide per la chiaccherata via email, è stato un vero piacere.

comments powered by Disqus